Cosa fare quando il “male di vivere” tocca qualcuno a noi vicino?

Cosa fare quando il “male di vivere” tocca qualcuno a noi vicino?

Vederti così, mi fa stare male”. Alzino la mano quanti di voi, tra coloro i quali soffrono di problemi di salute mentale, si sono sentiti rivolgere una frase del genere da un amico, un familiare, una persona a voi vicina e sulla quale riponete le vostre aspettative. Almeno una volta nella vita.

Per esperienza – sia come amica e familiare che come persona che soffre di problemi di salute mentale – so che non è facile stare accanto a chi combatte la sua personalissima guerra contro un male invisibile.

Paradossalmente, è più facile stare accanto a un malato oncologico che non a un malato la cui patologia spesso non è riconosciuta. Non dai medici, ovviamente, ma dai cosiddetti “sani”.

Affrontare i propri demoni interiori è una cosa che spaventa. Tutti. Nessuno escluso. Ma trovarsi di fronte qualcuno che lo sta facendo e, allo stesso tempo, sta chiedendo aiuto, spaventa ancora di più.

Non ci si può fare carico della sofferenza altrui, ma la si può alleviare. I farmaci e la terapia psicologica rappresentano una parte della cura. Quella medica. Ma bisogna sempre tenere conto di quella che, in un certo senso, potremmo definire “vitale”.

È già stato dimostrato come, persino nella cura di malattie fisiche, l’ambiente che circonda il malato riveste pure la sua importanza. Pensate, per esempio, all’utilizzo della “pet therapy”, soprattutto quando si tratta della cura dei pazienti più piccoli: i bambini.

Lo stesso vale per i pazienti più grandi: gli adulti e gli anziani. La “patologia” più diffusa tra chi soffre di disturbi psicologici o psichiatrici è la solitudine. No, non è una provocazione, ma la realtà dei fatti.

Bisogna chiedersi, però, se ci sia un sostegno indirizzato ad amici e familiari di persone che soffrono di problemi di salute mentale. Perché, purtroppo, amici e famiglie sono a loro volta lasciati da soli nell’aiutare a combattere il subdolo male di chi soffre. E anche questa è un’affermazione che sento di poter fare sulla base della mia esperienza.

Così, questa volta ho deciso di documentarmi proprio su questo aspetto del problema. I risultati della mia ricerca sono stati sorprendenti anche per me.

Negli ultimi anni, in Italia, si è fatto strada il termine inglese caregiver che, letteralmente significa “prestatore di cura”. Si tratta, di solito, di una figura riconosciuta più in ambito familiare. Ma le famiglie, come gli usi e i costumi del nostro Paese, si sono evolute con il passare degli anni. Motivo per cui, oggi, il caregiver non è necessariamente un familiare nel senso legale del termine.

Tralasciando l’aspetto normativo, perché non è su questo che ho concentrato la mia attenzione, mi sono occupata e (pre)occupata di trovare qualche strumento utile a un potenziale caregiver di persona con disturbi mentali.

Inutile dire che le risposte sono arrivate dal mondo dell’associazionismo e, quindi, prevalentemente del volontariato. Non esiste un vero e proprio censimento delle organizzazioni alle quali amici e familiari di chi soffre di disturbi mentali si possono rivolgere, ma esiste(va) – dal 1990 – la Fondazione Italiana per il Volontariato che, tra le altre cose, si occupa(va) proprio di monitoraggio del volontariato italiano mediante una banca dati, oltre che realizzazione di studi e ricerche sui temi del disagio sociale.

I loro dati, diffusi in rete una decina di anni fa, sono stati aggiornati in maniera più “istituzionale”. Sul sito dell’Agenzia delle Entrate, infatti, esiste un database composto da oltre 200 pagine che contiene i nomi e gli indirizzi di tutte le Onlus presenti sul territorio italiano. L’elenco è stato aggiornato fino ai giorni nostri, cioè al 2024. Basta consultare questo file pdf (link) e cercare il Comune nel quale vi trovate per sapere quali associazioni sono attive vicino a voi e di che cosa si occupano.

Ma perché è necessario formarsi e informarsi per contribuire alla cura di chi soffre di malattie mentali? Innanzitutto, perché si tratta di un argomento molto delicato. In seconda battuta, perché non è semplice trovare la chiave di volta più giusta per entrare in relazione con il malato. Nonostante, nella vita di tutti i giorni, si abbia già una relazione con la persona in questione. Infine, perché si può correre il rischio di essere “travolti” dal malessere di chi si vuole cercare di aiutare.

Non stiamo parlando, insomma, di quattro chiacchiere tra amici bensì dell’ascolto, della comprensione e dell’opera di persuasione nei confronti di chi è affetto dal “male di vivere” in tutte le sue molteplici e svariate declinazioni sanitarie.

In sostanza, chiunque faccia parte della vita di soggetti fragili, non può permettersi di commettere passi falsi: né per se stesso né per i soggetti di cui sopra. Pensate che, finanche i professionisti del settore – come gli psicologi – devono a loro volta sottoporsi periodicamente alla supervisione di altri colleghi. Non solo per gestire meglio i casi di cui si occupano, ma anche per evitare – loro stessi – di essere sopraffatti dalla mole dell’umana sofferenza di chi seguono.

Come sostiene la scrittrice americana Lisa Olivera, “Solo perché nessun altro può guarirti o lavorare su te stesso al tuo posto, non significa che tu possa o debba farlo da solo”.

 

Barbara Giangravè
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