Istat e governo baruffano su lavoro e tasse e intanto la crescita non c'è

 

In Europa i dati valevoli sono quelli dell'istituto, considerati imparziali

palazzo-chigiTornano i posti di lavoro, e a tempo indeterminato, nei primi due mesi dell'anno, dice il governo. "Dati a due cifre, impressionanti" secondo Matteo Renzi e il ministro Giuliano Poletti. A seguire hashtag #lavoltabuona. Dopo 48 ore arriva l'Istat a smentire tutto: ma quali nuovi posti, aumenta anzi la disoccupazione, quelli di cui parla l'esecutivo sono trasformazioni di vecchi contratti a termine per beneficiare degli incentivi fiscali e contributivi in vigore da gennaio. Poi in diretta la pubblicazione delle tabelle ministeriali (che ovviamente sembrano dar ragione al governo) e le repliche più o meno ufficiose dell'istituto di statistica.

Passano poche ore e la storia si ripete su un altro fronte sensibile: le tasse. Per l'Istat la pressione è arrivata nel 2014 al 43,5%, dal 43,4, con un picco del 50,3 a fine anno. Il ministero dell'Economia ribatte con una certa stizza che non è così, non si tiene per esempio conto del bonus degli 80 euro con il quale il carico fiscale scenderebbe al 43,1%. Ma il bonus è finanziato dal governo e l'Istat decide di conteggiarlo tra spese, non tra i tagli di tasse.

Non basta. Il dato 2014 del rapporto del deficit sul Pil, che Renzi e Pier Carlo Padoan avevano fissato e comunicato all'Unione europea al 2,9% è stato invece, per l'Istat, del 3. Un decimale, si dirà. Ma la commissione di Bruxelles non fa purtroppo che occuparsi di decimali, e da questi può dipendere l'apertura di una procedura di infrazione. Non solo. Proprio in Europa la guerriglia governo-Istat rischia di avere un prossimo terreno di scontro: i dati valevoli ai fini europei sono infatti quelli dell'istituto, considerati imparziali. Ma al di là delle forme c'è poi la sostanza. E cioè: le tasse non calano, la spesa pubblica aumenta, il lavoro non torna, o torna poco. Il tutto perché manca l'attore principale: la crescita.

E tutto questo al di là anche delle buone intenzioni governative. Lo sgravio degli 80 euro per i lavoratori dipendenti con redditi fino a 26 mila è un dato, ma ciò che entra in una tasca esce dall'altra con l'aumento delle addizionali comunali e regionali, che tra l'anno appena finito e quello appena iniziato stanno raggiungendo il top. La diminuzione dell'Irap, sacrosanta, non è compensata dal carico fiscale sulle imprese a loro volta taglieggiate dall'Ires e dagli incrementi dell'Imu su capannoni e beni strumentali. A chiudere il cerchio c'è il fatto che gli imprenditori (non le imprese) continuano in media a pagare meno tasse dei loro dipendenti, altro mistero e malcostume italiano.

Più importante di tutti, però, è la crescita. Tra pochi giorni uscirà un altro numeretto, quello del Pil del primo trimestre. Dopo la crescita piatta di fine 2014, l'Istat lo ha provvisoriamente stimato nello 0,1%, stavolta con il segno più. La Confindustria dice che si potrebbe arrivare allo 0,2. Vedremo. Sarà comunque il minimo in un quadro internazionale eccezionalmente favorevole: euro svalutato, petrolio in calo, liquidità della Bce. Una coincidenza che difficilmente si ripeterà in futuro, ma che l'Italia non riesce ancora a sfruttare. Il Wall Street Journal ha centrato proprio su questo un'analisi impietosa: "Non è la Grecia ma l'Italia il cuore del problema europeo. Un Paese con una crescita inesistente, il cui Pil aumentava del 2,1% negli anni Ottanta, dell'1,4 nei Novanta, dello 0,5 nei Duemila, e che - dopo la recessione globale - sta fermo come un elefante". Non c'è da essere gufi per smentire questi dati di fatto. Che la colpa sia della spesa pubblica, dei vincoli del debito, delle regole europee (che però non hanno lo stesso effetto sugli altri partner), della burocrazia, della voracità degli enti locali, o di qualcosa d'altro, da Berlusconi a Monti, da Letta jr. a Renzi non c'è ancora nessuno che abbia preso di petto questo problema.

 

Clara Rossi

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