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Basaglia: a 100 anni dalla nascita dello psichiatra che chiuse i manicomi, la figlia di un’infermiera dell’OP di Trieste racconta un’altra realtà

È di ieri (martedì 27 febbraio 2024) la notizia, pubblicata da “Il Mattino di Padova”, della morte di un uomo ricoverato nel reparto di Psichiatria dell’Ospedale Sant’Antonio di Padova. La magistratura ha disposto l’autopsia sul cadavere per accertare le cause della morte del degente.

A est del Veneto si trova il Friuli Venezia Giulia e, per Trieste, il suo capoluogo, si sta avvicinando una data molto particolare.

A breve, esattamente l’11 marzo, ricorrerà il centenario della nascita di Franco Basaglia, lo psichiatra passato alla storia per avere fatto chiudere i manicomi in Italia e, purtroppo, scomparso troppo presto. La storia del medico è indissolubilmente legata alla città di Trieste dove, nel 1971, ottenne l’incarico di direttore dell’Ospedale Psichiatrico, oggi Parco Cultura di San Giovanni. Nel 1973, inoltre, la città venne indicata come zona pilota per l’Italia nella ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità relativa ai servizi di salute mentale.

Abbiamo chiesto alla figlia di un’infermiera, che ha lavorato all’Ospedale Psichiatrico di Trieste sia prima che dopo il passaggio di Franco Basaglia, quali fossero le reali condizioni della struttura in quegli anni di transizione.

Paola (il nome è di fantasia, perché la signora ha chiesto di mantenere l'anonimato n.d.r.), in base all’esperienza professionale di sua madre (deceduta qualche anno fa n.d.r.), ci può raccontare cosa avvenne negli anni ‘70 all'Ospedale Psichiatrico di Trieste?
«Basaglia ha rivoluzionato la struttura manicomiale di Trieste, segnando un netto spartiacque tra prima e dopo la riforma. Prima della riforma, chi finiva in manicomio non veniva dimesso praticamente mai, anche se i motivi del ricovero non avrebbero, almeno ai nostri occhi, necessitato di una degenza a vita in un manicomio. Ci finiva, infatti, chi semplicemente soffriva d’ansia, epilessia, ma anche chi aveva problemi con l’alcool. Le famiglie erano ben felici di liberarsi di queste “seccature”. Quando veniva chiesto loro se volessero tenere il paziente in casa, rispondevano di no perché era pericoloso e tanto bastava a farli internare. A farli diventare matti ci avrebbe pensato la degenza stessa. Il manicomio era suddiviso in reparti o padiglioni, ciascuno dei quali aveva una lettera dell’alfabeto. Prima della legge Basaglia erano divisi anche tra uomini e donne. C’era il reparto “agitati” e quello “violenti”. Il paziente non poteva in nessun modo uscire dalla struttura e neanche dal reparto stesso. Per lavare i pazienti venivano usate delle pompe: non so se spruzzassero acqua calda o fredda. Se un paziente era troppo agitato, si ricorreva alla gabbia: un letto attorno al quale c’era una struttura di ferro simile a una gabbia che gl’impediva di uscire. Nel caso in cui il paziente fosse pericoloso anche per sé, si ricorreva alla camicia di forza. Una volta immobilizzato, lo si lasciava lì a urlare finché, stremato, la crisi non passava. Sicuramente si usava anche la “forza” per calmare il malcapitato, tanto anche se un matto presentava lividi, non era un problema: i matti si danno pugni da soli. Con la riforma Basaglia diverse cose son cambiate: sono state abolite le camicie di forza e le “gabbie”, ma c’è stato un aumento e un abuso degli psicofarmaci. Il malato è passato dello status di pazzo incurabile a quello di malato mentale e, in quanto malato, è tornato a essere visto come un umano con emozioni e bisogni. Basaglia ha tentato di far passare il messaggio che la coercizione non servisse a curare il disagio mentale, ma anzi lo alimentasse. Sono state create, quindi, delle strutture per normalizzare la vita del paziente: il Teatro dove i degenti “gestibili”, guidati da un medico e da qualche volontario con conoscenze teatrali, facevano esperienza di questo genere di arte, per esempio. La parrucchiera dove i malati potevano farsi tagliare i capelli e, per le signore, c’era anche la tinta. Il tutto, ovviamente, sempre gestito dai volontari. E poi c’era (e c’è ancora) il bar “Il posto delle fragole”. Tutto era in mano a dei volontari: i malati potevano andare a prendere un caffè che sarebbe stato pagato attraverso la pensione di invalidità del paziente. D’estate, degli infermieri portavano alcuni pazienti al mare. Questo è il lato bello della riforma, ma esiste un lato oscuro di cui poco si parla perché pare che Basaglia sia in qualche modo intoccabile e che quanto fatto da lui sia perfetto. Quando il cancello del manicomio fu aperto, i matti avevano la possibilità di vedere il mondo dopo anni di reclusione. I pazienti a cui questo fu concesso, perché gli agitati e i violenti rimasero comunque sempre reclusi, dovevano rientrare la sera. Solo inizialmente erano accompagnati da volontari, poi iniziarono a uscire da soli, e non sono rari i casi di quelli che morirono investiti dalle automobili di cui non conoscevano la pericolosità. Vennero istituiti dei gruppi famiglia, in cui i pazienti più “normali” potevano vivere: si trattava di una vera casa con la presenza dei volontari. Come nel caso di prima, però, i volontari a un certo punto li lasciarono da soli. È famosa a Trieste la storia di Paolin, perché ha dato fuoco più volte all’appartamento del condominio in cui abitava con altre persone, cosiddette “normali”, per la sua integrazione. Era solito stare nudo sul terrazzo, in qualsiasi stagione, urlando il suo nome mille volte al giorno, ma gli piaceva urlare anche “Berlusconi mona” (cioè stupido), suscitando l’ilarità di tutti quelli che sentivano le sue urla. Quando il vicinato era stanco di sentirlo urlare o temeva per la sua incolumità, dato che a volte sembrava diventare violento, chiamavano i sanitari che andavano a fargli una puntura… e Paolin spariva per una settimana circa, per poi tornare punto e a capo. Paolin è morto suicida, lanciandosi dalla finestra di casa sua. E, come a lui, stessa sorte sarà toccata ad altri, perché la libertà che Basaglia sognava si era trasformata in abbandono».

Quello che oggi è il Parco Cultura di San Giovanni che tipo di area è diventata?
Parco Cultura di San Giovanni, da tutti chiamato il Comprensorio o ex Comprensorio, è un enorme spazio verde in cui trovano sede diverse strutture: un distretto sanitario, un distretto veterinario, un centro per i disturbi alimentari e uno per i problemi dello spettro autistico, un centro per la disintossicazione da alcol, tabagismo e tossicodipendenza. Alcune strutture sono a disposizione dell’Università di Trieste e ci sono anche due piccoli musei che, però, nulla hanno a che fare con la psichiatria. San Giovanni è ora famoso anche perché al suo interno è presente un enorme roseto, pare uno dei più grandi d’Italia, che vanta cinquanta tipi di rose diverse».

Recenti fatti di cronaca (il ritrovamento al suo interno del cadavere di Liliana Resinovich, che è stato riesumato n.d.r.) hanno posto il Parco all'attenzione dei mezzi d'informazione nazionale: lei si è fatta un’idea di ciò che può essere realmente accaduto alla signora?
«La storia di Liliana Resinovich, per come ce la fanno intendere i mass media, ha dell’incredibile. Secondo loro, salvo colpi di scena, la signora si sarebbe infilata da sola, fino al busto, in un sacco della spazzatura, per poi mettersene un altro sulla testa e tutto questo senza lasciare le sue impronte sul sacchetto: roba da matti… quindi giusto per San Giovanni! Io credo che la morte della signora possa essere stata involontaria: magari in seguito a un’aggressione per rapina è stata colta da infarto e i sacchi sono serviti per nascondere il cadavere. Credo che con tutte le strutture che si trovano all’interno del comprensorio, recuperare dei sacchi non sia poi una missione impossibile».

Tornando indietro nel tempo, nel 1972 il cavallo Marco, che fino ad allora era stato utilizzato dentro la struttura sanitaria, venne destinato al macello. I ricoverati, con una lettera indirizzata al Presidente della Provincia dell'epoca, gli salvarono la vita e ottennero il suo affidamento a loro. Il fatto di cronaca diede l’ispirazione per la realizzazione di un’opera artistica, il “Marco Cavallo”, che fu costruito nei locali dell'ospedale. Dove si trova attualmente l’opera e cosa rappresenta per la città di Trieste?
«La costruzione di un grande cavallo azzurro di cartapesta e legno, chiamato Marco, in memoria di un cavallo che veniva usato all’interno dell’ospedale psichiatrico per portare la biancheria sporca dai reparti alla lavanderia, passato alla storia con il nome di Marco Cavallo, ottenne una certa eco. Lui è il simbolo dell’apertura del manicomio: era talmente grande che, per farlo uscire dal laboratorio dove era stato costruito, hanno dovuto abbattere la parete. Credo che del vero Marco Cavallo si siano perse le tracce: sarà al “sicuro” in uno dei tanti magazzini del Comune di Trieste. Al suo posto c’è una struttura in ferro, decisamente trascurata, con buchi e ruggine in bella vista, senza alcuna targhetta o spiegazione. Del resto, a Trieste vige il “viva là e po bon!”, che sarebbe come dire “come va va, senza pensieri”. Quindi, messo il cavallo, può bastare: chi sa sa, chi non sa si informi… altrove. Marco cavallo, per i Triestini più giovani, non rappresenta nulla secondo me: credo ignorino del tutto la sua esistenza. Per gli anziani, forse ha ancora il potere di evocare una speranza di cambiamento che è stata comunque disillusa, probabilmente a causa della prematura morte di Franco Basaglia. Lo stato di abbandono del cavallo stesso riflette molto bene quello dei malati».

Nel 1977 fu annunciata la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste e, nel 1978, venne approvata la legge 180 di riforma psichiatrica, che porta proprio il nome di Franco Basaglia. Sempre nel 1977, a Trieste, arrivò Dario Fo, amico del medico, che si esibì in uno spettacolo teatrale per sostenere la riforma. Che rapporto ha oggi Trieste con la salute mentale? Come sono assistite le persone che soffrono di disturbi psichici?
«Non solo Dario Fo, ma anche Gino Paoli ha fatto degli spettacoli a San Giovanni. Trieste oggi vive degli antichi splendori legati alla figura di Franco Basaglia, ma presenta le drammatiche mancanze, uguali se non peggiori, che ha la salute mentale in tutta Italia. Chi soffre di un disturbo mentale o emotivo, quali ansia/depressione, non trova grandi possibilità di essere aiutato. Le strutture sorte in sostituzione dei manicomi, un tempo chiamate CIM (Centro Igiene Mentale) e ora CSM (Centro Salute Mentale), sono strutture carenti di personale e spesso del tutto inadeguate ai bisogni dei pazienti. Oggi, chi soffre di disturbi ed è dovuto ricorrere ai CSM è marchiato a fuoco: “Ah quello è uno di San Giovanni”. E, per San Giovanni, s’intende il manicomio pre-Basaglia. Quindi, si giudica una persona come “picchiata nel cervello”. Può capitare che se uno ha il “marchio” e chiama l’ambulanza per un qualsiasi problema non legato ai suoi disturbi mentali, si senta rispondere che deve chiamare il CSM… come se loro potessero curare, che ne so, una gamba rotta. Poi alla lunga vengono, ma bisogna lottare un po’. Le persone con disturbi mentali, in realtà, non sono assistite. Sono del tutto in mano alle famiglie che fanno quel che possono e diventano spesso “ostaggio” del malato. Non è colpa di Basaglia, ma di chi ha cristallizzato il progetto, lasciandolo nel bozzolo dove si trovava da quando è nato. Hanno tagliato i fondi. Un tempo, ad esempio, gli ansiolitici per chi era seguito dal CSM erano gratuiti. Da qualche anno non li forniscono più e bisogna che il paziente li paghi di tasca sua… se ha i soldi, altrimenti sta senza… e non credo che io debba aggiungere altro».

Alla luce di quanto da lei raccontato, la fama di Trieste, nota come la città italiana in cui la psichiatria ha raggiunto i suoi più alti livelli, è davvero meritata oppure no?
«Trieste è la vergogna della psichiatria in Italia. Ha avuto la responsabilità di aver dato vita a una grande rivoluzione, per poi abbandonarla subito dopo la morte di Franco Basaglia. Tutti lodano Trieste per quello che è stata, ma nessuno viene a chiedere conto di come quel progetto si sia arenato, impantanato e sia stato dimenticato del tutto. Oggi un malato, a Trieste, trova il degrado della sanità mentale, con la beffa di sentirsi ripetere che è fortunato, perché a Trieste siamo avanti. Siamo così avanti che siamo tornati al punto di partenza! Manca tutto: i fondi, le strutture… e dell’entusiasmo Basagliano ormai non c’è più traccia. Gli psichiatri sono pochissimi e così provati che, secondo me, vanno a farsi curare dai loro colleghi a Gorizia! Trieste ha liberato i manicomi al grido di “1, 2, 3… liberi tutti!”, ma ora i malati che non trovano cura non sono liberi: sono imprigionati nelle loro paure e privati dell’assistenza medica. Di recente, ho visto sventolare su una delle palazzine dell’ex Ospedale Psichiatrico la scritta: “Franco è vivo e lotta insieme a noi!”. Secondo me, più che lottare, Franco si sta rivoltando nella tomba».



Barbara Giangravè
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