Nel Pronto Soccorso Aosta per 13 ore su una barella tra martiri ed eroi

Mentre l'assessore e i suoi amici ci dicono che va quasi tutto bene

 

ospedale di Aosta

Qualche settimana fa alle 7 di mattina mi sono dovuto recare al pronto soccorso di Aosta per un problema che mi stava creando delle difficoltà. Appena giunto nella struttura sono stato accolto con gentilezza e professionalità. Sono stato sottoposto ai primi controlli di routine e in seguito sottoposto a ulteriori esami e trattamenti. Ne sono uscito verso le ore 20, tredici ore dopo. 

Non voglio concentrare l'attenzione su tempo trascorso in barella. Quello che voglio raccontare è il mondo che mi girava attorno a me in quelle tredici ore. Un mondo di dolore, rabbia, stanchezza. Tanti pazienti collocati negli stanzoni, lamenti, pianti e rabbia. Sì, molta rabbia. Certo, l'ospedale e il pronto soccorso non sono luoghi di gioia. Non ci si può aspettare felicità e risa. In quegli stanzoni tra pazienti in barella, sui letti, sulle poltrone si respirava anche l'odore di urina misto all'avvilimento di coloro che avevano bisogno di assistenza ma non potevano chiamare il personale perché il pulsante rosso è impossibile da raggiungere per chi non può camminare. Tredici ore tra giovani, adulti e anziani martiri. 

Ci sono anche degli eroi. Sono i medici, gli infermieri, tutto il personale che pur sotto organico, con molta difficoltà, riescono comunque a seguire i pazienti. Nelle tredici ore di questo incubo ho assorbito come una spugna i commenti degli operatori che si sfogavano e si domandavano quanto ancora sarebbero stati in grado di resistere in queste condizioni. Una domanda tra tutte quelle sentite crea molta frustrazione: perché, prima di impegnare soldi negli ospedali di comunità, non si investono risorse economiche per il personale, per riattivare i reparti della sanità pubblica chiusi? Parliamo di quegli oltre 50 posti letto vuoti in ospedale per scelte che lasciano dubbi persino tra coloro che lavorano nella sanità.

In questa epoca dove le immagini contano più delle parole, un selfie probabilmente avrebbe reso meglio l'idea della situazione: io molto provato, la dottoressa e il personale anche più provati di me. Forse il selfie avrebbe aiutato l'assessore alla Sanità Marzi e i colleghi amministratori a capire perché gli operatori sanitari fuggono dalla Valle d'Aosta. Quella foto avrebbe dato molte risposte, avrebbe fatto comprendere la stanchezza e la frustrazione degli operatori che si trovano nella situazione di dover rispondere di fronte ai pazienti di una sanità pubblica che funziona male quando la colpa non è loro. Anzi: loro fanno tutto il possibile per far sì che almeno qualcosa funzioni ancora.

Quel selfie ovviamente non è stato fatto. C'è poco da esibire, poco da mostrare. Ci sono tanta difficoltà e sofferenza che si possono toccare con mano tutti i giorni magari trascorrendo, come assessore, un po' di tempo negli stanzoni del pronto soccorso di Aosta. Non c'è bisogno di stare 13 ore su una barella. Basta una sedia e del tempo da impiegare per essere in trincea al fianco degli operatori sanitari. Sarebbe probabilmente un gesto più apprezzato rispetto alle molte parole e ai tanti discorsi che scandiscono la spesso vuota quotidianità della politica valdostana.

 

 

Marco Camilli

 

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