Lettera alla mamma della bambina di Misterbianco

Lettera alla mamma di Misterbianco

Cara mamma,
ignoro il tuo nome e il tuo cognome perché, per fortuna, i miei ex colleghi giornalisti non li hanno scritti questa volta. Diversamente, credo che i cosiddetti “leoni da tastiera” avrebbero già preso di mira i tuoi account social per augurarti la stessa morte che hai riservato a tua figlia.

Io sono una coetanea con una storia a tratti simile e a tratti diversa dalla tua. Soffro di disturbi mentali anch’io, ma non ho avuto i figli che avevo desiderato. Qualcuno mi ha detto che è stato meglio così perché, a causa di questo problema, non mi sarei potuta prendere cura di loro.

Di te e della tua bambina sono venuta a conoscenza, come il resto d’Italia, una settimana fa… quando hai gettato la piccola dal terzo piano del palazzo in cui abitavate. Devo parlare al passato, ovviamente, perché tua figlia non c’è più e tu sei in carcere.

Due giorni fa, sono stati celebrati i funerali della bambina e ho appreso anche che tua suocera e tua cognata hanno letto un messaggio in cui c’era scritto che non hai amato tua figlia come avresti dovuto.

Sai, se fino a 13 anni fa – prima che manifestassi i sintomi dei miei disturbi mentali – avessi ricevuto questa notizia dai giornali, probabilmente anch’io ti avrei augurato di fare la stessa fine di tua figlia. Indignandomi, per di più, nel saperti mamma… come io non sono mai diventata.

Oggi, diversamente da allora, comprendo il buio che ti ha annebbiato il cervello, gli occhi e il cuore. Non ti giustifico per ciò che hai fatto: non ti potrà mai giustificare nessuno, a cominciare proprio da te. Capisco, però, la “natura” del gesto che hai commesso.

Non penso si tratti di disamore verso la tua bambina. Chi soffre di depressione è disamorato della vita. Tutta. Eppure, mi riesce più “facile” immedesimarmi in te anziché in altri genitori.

Dove vivo, c’è un problema di salute pubblica – salute fisica, intendo – per affrontare il quale stiamo tentando di fondare un comitato di abitanti. Nell’arco degli ultimi tre giorni, a fronte delle adesioni ricevute, mi amareggia molto non avere ancora visto quelle delle mamme e dei papà di figli che, potenzialmente, rischiano di ammalarsi di cancro.

All’inizio di questa lettera, ti ho scritto "dei miei ex colleghi giornalisti" perché, un tempo, facevo il loro stesso lavoro. Poi, la vita e la malattia mi hanno condotta altrove. Ho scritto due libri: il primo parla di tumori e il secondo parla di depressione. Io li considero tutti malattie gravi, per combattere le quali è necessario il sostegno di quelli che ci stanno intorno, oltre che della stessa società cosiddetta "civile". Il mio terzo libro, in fase di stesura, parla del rapporto tra una madre e una figlia. Mentre lo scrivo, immagino una relazione che io ho avuto solo da figlia, ma non da madre.

Se devo immaginare te, adesso, non ho bisogno di sforzarmi poi così tanto. Non ho ucciso nessuno, non fisicamente almeno, ma ho ucciso me stessa tante di quelle volte da averne perso il conto.

Tu, per avere ucciso tua figlia, potresti rimanere in carcere – o in qualche struttura carceraria sanitaria – per il resto della vita. Nonostante sia tu che io sappiamo già che la tua vita era finita ancor prima di quella della tua bambina.

Se, un giorno, dovessi guarire dal tuo male – ti prego – parla con i genitori che oggi non stanno amando né si stanno prendendo cura dei loro figli… anche se loro, a differenza tua, non fanno notizia.



Barbara Giangravè
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