Infermiera a Pavia ai tempi del Coronavirus: abbiamo paura, ma guardiamo al futuro con positività

'Siamo in una situazione surreale, e se diciamo "restate a casa" c'è un motivo'

 

zona rossa

AOSTA. Anna è una infermiera che per anni ha trascorso tante estati in Valle d'Aosta, nella Val d'Ayas, insieme ai genitori che lì possedevano una casa. L'abbiamo contattata per farci raccontare come si vive la situazione di emergenza sanitaria in una delle zone italiane più colpite dalla pandemia.

Lei da settimane sta affrontando il Coronavirus lavorando in una RSA a contatto con gli anziani nella zona di Pavia, all'interno della "zona rossa" quando questa era ancora limitata alla Lombardia e a qualche altra provincia.

Ci chiede di utilizzare un nome di fantasia per la sua intervista. 

Quando vi siete resi conto della serietà della situazione?
«Quando il numero di persone coinvolte nella provincia cominciavano ad aumentare. Oggi se diciamo "restate a casa" c'è un motivo. Noi operatori sanitari ci abbiamo messo la faccia con cartelli e fotografie dicendo di rimanere in casa perché ci andiamo di mezzo tutti, anche noi. Se noi ci ammaliamo come facciamo a prestare assistenza in prima linea?».

Com'è il tuo vivere quotidiano?
«Surreale. Mia madre è anziana e non è più uscita di casa. L'altro giorno ero andata a fare la spesa e ho dovuto prendere il numeretto. Mi sembravano le file dei tempi di guerra, quando le persone si mettevano in coda per ricevere le razioni di cibo. Io abito in un paese della provincia in cui ci conosciamo tutti, ma lì in coda eravamo come tanti sconosciuti. Manca la comunicazione. Solo quattro chiacchiere con le ragazze delle casse che anche loro in questa situazione fanno del loro meglio. Sorrisi un po' spenti, freddi. Come se fossi in una trincea di guerra. È una situazione triste. Guardo le strade vuote quando rientro dal turno pomeridiano e mi chiedo cosa sia capitato».

Nella struttura sanitaria in cui lavori come vivono la situazione i tuoi colleghi?
«Abbiamo paura, sarebbe una bugia dire che non ne abbiamo. Cerchiamo di sdrammatizziamo, di guardare al futuro con positività e di affrontare le nostre ore di lavoro nel migliore dei modi. La situazione però è pesante perché non sai con cosa si sta combattendo. E' un bastardo, come lo chiamo io, che si sta impadronendo di tutti noi. Non abbiamo i mezzi necessari ora come ora per poterlo sconfiggere. Procediamo a tentoni, ma al momento sta vincendo ancora lui».

Quante volte al giorno misuri la febbre?
«Quando entro e quando esco al lavoro. Se ho 37,5° di febbre devo subito lasciare il servizio. Se ho sintomi simili all'influenza devo restare a casa».

Hai fatto il tampone?
«No. Da noi sono stati fatti solo chi ha sintomi. Ma anche così è un rischio, è un'incognita. Penso di non averlo e magari invece ce l'ho».

Te lo sogni, il virus?
«Quando vado a letto sono troppo stanca e piombo in un sonno profondo. L'ultimo pensiero prima di mettermi a dormire è: che Dio ce la mandi buona».

Nella struttura in cui lavori i sono verificati dei decessi?
«Ci sono stati alcuni decessi, ma non sappiamo se legati al Coronavirus. Abbiamo avuto casi di febbri anomale in un reparto con pazienti con patologie che possono aggravarsi dall'oggi al domani. Ci sono stati invece decessi in strutture a noi associate».

Secondo la tua esperienza e la tua sensazione, se ne uscirà?
«Io sono ottimista e dico che ne usciremo, ma non adesso. Bisogna adattarsi a queste regole anche se drastiche, anche se facciamo fatica ad accettarle perché non rientra nel nostro modo di pensare e di vivere».

 

Marco Camilli

 

 

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